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Più flessibilità sugli investimenti pubblici, anche se con qualche piccola restrizione: le novità

A seguito di una lunga trattativa durata quasi 16 ore, i negoziatori del Parlamento e del Consiglio europeo hanno raggiunto un accordo sulla riforma del Patto di stabilità. L’Eurocamera raggiunge uno spazio, seppur piccolo, per gli investimenti pubblici e più margini per deviare sui percorsi di spesa in caso di circostanze eccezionali.

Le nuove regole partiranno da subito

Entro il 20 settembre 2024, gli Stati dovranno presentare i primi piani di spesa a quattro anni, estendibili fino a sette. Per riuscire a dar spazio agli investimenti, il Parlamento Europeo ha ottenuto che venga scorporata la spesa nazionale relativa al cofinanziamento dei progetti finanziati dall’Ue dal conteggio complessivo della spesa pubblica. Non solo, ma per gli investimenti già avviati nelle aree prioritarie Ue, come ad esempio la transizione climatica e digitale, sicurezza energetica e difesa, saranno presi in considerazione nella relazione dalla Commissione sulla deviazione dai piani di spesa dando, così spazio agli Stati per evitare la procedura per disavanzo eccessivo.

Per le circostanze eccezionali

Non solo, l’Eurocamera ha ottenuto, che nel caso di circostanze eccezionali che siano in grado di determinare un impatto notevole sui conti, sarà possibile, chiedere di deviare dai piani di spesa concordati per un tempo definito e che potrà essere prorogabile fino a un anno. In ogni caso, si è comunque arrivati ad una mediazione i 27 Stati membri dell’Ue al Consiglio e all’Eurocamera.

L’ultimo scoglio, il negoziato

La riforma è quindi incentrata su piani pluriennali di spesa sui quali gli Stati avranno autonomia, salvo per l’obiettivo di aggiustamento che verrà calcolato dalla Commissione. In questo caso il negoziato su pressante richiesta dei paesi ‘frugali’, si sono aggiunte “salvaguardie” per impegnare i Paesi a un ritmo certo di riduzione del debito (dello 0,5 e dell’1% annuo per chi sfora rispettivamente il 60% e il 90% del rapporto debito/Pil) e del deficit pubblico (per portarlo all’1,5% del Pil, rispetto al 3% del Pil fissato dai trattati).

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